La depressione post adolescenziale
L’adolescenza, pur nella sua forma più burrascosa e difficile, rappresenta un momento della vita in cui accanto al disagio a volte intensissimo permane un’energia a tratti travolgente.
La vitalità adolescenziale
La depressione nell’adolescente raramente è un affetto totalizzante. Quando essa domina la scena basta che cambino le condizioni esterne frustranti perché la leggerezza, le sensazioni forti e il desiderio di vivere prendano il sopravvento sui pensieri bui.
In genere l’adolescente patisce molto la conflittualità o i problemi in seno al suo contesto familiare e amicale. Ma appena gli si presenta l’opportunità di un viaggio o di una semplice uscita con gli amici “ritrovati” tutte le difficoltà sembrano sparire.
Egli sa che nulla è risolto grazie alla boccata d’aria, tuttavia in lui il sentimento della vita è così prepotente da bastargli poco per distogliere la mente dalla negatività.
Il male di vivere dunque di rado si imprime in maniera sorda e permanente nell’animo adolescenziale. La psiche è ancora in grado di “ripulirsi” da sè, di tornare, dopo la burrasca, linda e riflettente come la superficie di uno specchio.
Gli adolescenti sono un po’ grandi e un po’ bambini, possono vivere le loro esperienze in autonomia pur restando ancora sotto l’ombrello tutelante dell’adulto.
La scuola, amata o odiata che sia, rappresenta un punto fermo e un ancoraggio. Anche quando va stretta essa concorre a tutelare l’identità, perché rappresenta un’istituzione e un gruppo d’appartenenza.
L’adolescente può criticare tutto e tutti, rifiutare il conformismo, sfidare l’autorità. Ma non si trova ancora in mare aperto, può contare su certezze che i vent’anni gli porteranno via.
La solitudine della giovinezza
È il giovane adulto, sul finire della scuola e alle prese con il post diploma ad essere veramente a rischio di sprofondare in un malessere profondo e senza luci.
La famiglia non basta più da tempo, essa strutturalmente non può appagare la necessità di amare e di realizzare qualcosa nel mondo.
Se poi i genitori sono essi stessi impelagati in personali crisi emotive (oggi data la complessità del mondo in cui viviamo la cosa è praticamente la norma) la situazione si fa ancora più complicata.
Il luogo di lavoro o l’università sono ambienti molto differenti dalla scuola. La scuola nel bene o nel male è un luogo “caldo” , le relazioni con i compagni e gli insegnanti hanno un che di intimo, anche quando sono conflittuali o poco costruttive.
Mentre l’università, di questi tempi ormai l’opzione più gettonata dopo il diploma, appare come un ambiente “freddo”, anonimo, dove la dimensione del piccolo gruppo non è più assicurata.
I ragazzi al primo anno arrivano a lezione già organizzati in gruppetti chiusi, oppure si coalizzano nei primissimi mesi di frequenza. Sono in genere situazioni relazionali che hanno lo scopo di far circolare informazioni e mantenere alto un livello competitivo, per compensare vuoti e paure.
Chi all’inizio resta fuori dai giri rischia di vivere il contesto universitario da outsider. Mentre chi si adatta sa benissimo che le relazioni che imbastisce simulano i rapporti lavorativi del futuro, in cui la collaborazione (quando c’è) si intreccia strettamente alla competizione.
La solitudine emotiva è allora il vissuto che più caratterizza il passaggio dall’adolescenza alla vita del giovane adulto. Anche quando restano le amicizie fuori dall’università, si trovano fidanzati/e e i rapporti universitari funzionano, si affaccia comunque un senso prima sconosciuto, come di smarrimento.
Esso non è necessariamente negativo ai fini della crescita, perché costringe a toccare con mano la realtà, ad arginare la dimensione sognante e a sviluppare un pragmatismo e una forza di carattere importanti ai fini della vita adulta.
Per molti, per le nature più sensibili e meno appoggiate da adulti in grado di fornire un supporto vigile ma non soffocante, questa situazione rappresenta l’anticamera di un malessere depressivo più profondo.
La fine del sogno adolescenziale, delle amicizie pure, degli amori assoluti, delle tinte forti può innescare un processo di progressiva chiusura in se stessi.
La solitudine è ricercata come un luogo non contaminato dalla competizione e dall’utilitarismo a cui la società degli adulti pare voler addestrare.
Le nature sensibili più forti riescono ad attraversare questa solitudine senza abbandonarsi al nulla. In loro la depressione funge da strumento conoscitivo, una sorta di junghiana “malattia creativa”, una crisi che diventa l’occasione per scoprirsi, affinarsi e resistere alla soluzione facile del conformismo sociale.
Mentre quelle più fragili rischiano di perdersi, di lasciarsi andare al freddo e al vuoto, di smarrire il rapporto col tempo, di non concludere con gli esami e di trascinarsi negli anni migliori senza ottenere risultati di sorta.
La psicoterapia
La psicoterapia può essere utilissima in questo snodo delicato della vita, soprattutto in carenza di adulti di riferimento di spessore.
Il terapeuta accompagna la natura sensibile forte nel suo inizio viaggio, (sostenendo lo sforzo titanico di non cedere se stessa a vantaggio del conformismo), così come quella fragile e bisognosa di sostegno (aiutandola a tornare a galla e a iniziare a muovere piccoli passi).
La terapia farà più fatica ad incidere sull’eterno adolescente (ultra garantito da mamma o papà) o sul conformista camaleonte, a vent’anni già astuto e consumato stratega.
La fatica e la sofferenza restano le porte strette d’entrata in psicoterapia, il resto noi terapeuti lo lasciamo ad altri, ai counselor o a tutti coloro che si occupano di potenziare l’ego per abilitare al club dei così detti vincenti.