Due facce della depressione
Cosa distingue la depressione diffusa dalla depressione clinica
Non esiste una tipologia “unica” di depressione; anche se alcuni sintomi visibili sono apparentemente gli stessi (apatia, perdita di interessi, umore malinconico e triste, ritiro sociale, senso di disvalore) le cause retrostanti possono essere molto diverse.
La depressione diffusa per lo più riguarda categorie di soggetti che non sono ancora diventati psichicamente adulti, ovvero che sono rimasti ancorati in maniera più o meno accentuata alla fase di irresolutezza adolescenziale. L'insoddisfazione è la figura tipica che ben esemplifica questo tipo di depressione, e si accompagna a vissuti di noia, tedio e irresolutezza.
La depressione clinica implica invece un dolore psichico molto profondo e drammatico, che mina pesantemente il senso di essere vivi e rischia di degenerare in passaggi all'atto autolesivi.
La psicoterapia nel primo caso punta a rimettere in contatto con se stessi e con quello che si vuole veramente, spinge cioè a prendere finalmente una posizione adulta, a compiere delle scelte e a prendersi la responsabilità di chi si è. Nel socondo caso invece si punta a ricostruire la percezione di una sensatezza esistenziale, tramite appigli stabili che possono riparare dalla caduta nel baratro della colpa.
La depressione comune
In generale la tipologia meno grave (e per certi versi meno “autentica”) è legata a situazioni contingenti di indecisione, in cui la paura di mettersi in gioco la fa da padrona in tutti gli ambiti esistenziali.
Il confine con l’accidia e la pigrizia è molto labile: in questi casi è come se mancasse un motore motivazionale interiore forte, la vitalità fosse infiacchita non per traumi subiti ma per una sorta di ritrosia a conoscere realmente se stessi e i propri limiti. Ne risulta un “vivacchiare” senza slanci, spesso all’ombra di situazioni comode che riparano dai rischi ma incatenano la volontà.
In terapia può emergere un qualche blocco nella crescita, spesso dovuto a una fissazione alla fase adolescenziale e alla sua ambiguità di fondo: dipendenza dal genitore e volontà di staccarsi ancora non sufficientemente sviluppata, elaborata e perseguibile.
I depressi di questo genere si cullano nel compiacimento dei loro piccoli drammi interiori, restando sempre rigorosamente ben al di qua di una qualche esposizione autentica. L’invidia verso gli altri, ben presente, si spiega come sentimento astioso verso coloro che nella vita si spendono e si mettono in gioco in maniera non conformistica.
La polarità conformismo-ribellione infatti domina la dinamica psichica; gli atteggiamenti apparentemente spregiudicati o eccentrici mancano totalmente di spessore, di originalità e vera indipendenza. La passiva accettazione di idee e comportamenti convenzionali in realtà domina incontrastata, favorendo quel torpore e quella lamentela tipica del soggetto bloccato nel suo processo di maturazione psicologica.
Sul perché avvenga questo blocco non c’è una risposta univoca, nella misura in cui ogni situazione ha la sua specificità. In generale tuttavia una simile fiacchezza e irresolutezza è facile incontrarla anche nelle figure dell’ambiente familiare; spesso un’impostazione mentale improntata al lamento e alla debolezza della volontà viene ereditata per modellamento, ovvero per identificazione all’immagine dell’altro.
Nonostante la scarsa gravità clinica di queste depressioni, che non sono a rischio di compromettere gravemente il funzionamento dell’Io nè tantomeno di intaccarne l’integrità (il rischio suicidario è pari a zero), la terapia è ostica, perché rischia di colludere con il vittimismo e i falsi movimenti di questi soggetti.
Ne deriva un girare a vuoto, inutile o addirittura nocivo perché rinforza proprio quella dipendenza che sarebbe importante individuare e provare a superare.
A volte però la terapia riesce a raggiungere territori non scontati, di potenziale crescita, quando un incontro, un fallimento, un evento forte della vita scuote il torpore e fa vacillare come un pugno in pieno viso tutto il castello di illusioni costruito negli anni. Allora, forse, è possibile iniziare a lavorare sul serio, a partire dall’esperienza di risveglio tipicamente associata ai dolori della vita. Se essi non vengono “sigillati” e buttati dietro le spalle allora possono senz’altro contribuire a un cambio di passo nella coscienza di sè.
La depressione “vera”
Un altro discorso merita la depressione propriamente detta, quella cioè in cui in primo piano, al di là dei segni esteriori, troviamo il dolore psichico propriamente detto.
Il dolore mentale non è paragonabile al dolore “del cuore”, al dolore cioè che tutti quanti proviamo quando ci imbattiamo nella perdita o nella caduta delle illusioni.
Il dolore di chi soffre di depressione ha una qualità diversa, è quasi indicibile, inconoscibile, spesso nascosto da modi brillanti e pieni di fascino.
Non di rado infatti esso è compensato psichicamente da esperienze della mente di segno totalmente opposto: nel dolore psichico c’è buio, notte profonda, rallentamento, paralisi, disperazione, estenuante senso di agonia, mentre nella compensazione maniacale irrompono luce accecante, emozioni cristalline, effervescenza, guizzo, accelerazione, euforia, loquacità, idee a fiotti fino al delirio e alla perdita totale del controllo su di sè.
I passaggi all’atto suicidari infatti, quando avvengono, sono spesso successivi all’ esaurimento mentale della fase maniacale.
Si parla dunque di bipolarismo o di sindrome maniaco depressiva, per enfatizzare i due tempi in cui si estrinseca lo stato morboso.
Questi due momenti in cui i “down” precedono o seguono gli “up” li ritroviamo più sfumati anche nel temperamento “ciclotimico” così come in alcuni disturbi della personalità (borderline-narcisistico-antisociale).
Alla base sicuramente abbiamo dei fattori predisponenti di natura organica (genetica tout court) a cui però si associano traumi ripetuti avvenuti nell’infanzia.
La genetica da sola infatti non basta a giustificare la deflagrazione nella mente di simili “bombe”.
Solitamente la marca del trauma subito ha una specificità: si tratta di una qualche forma di abbandono, un’esperienza di caduta verticale senza possibilità di contenimento.
La freddezza emotiva, oppure l’alternanza continua di caldo-freddo caratterizza l’ambiente in cui avviene la crescita. Alcuni psicoanalisti parlano di uno sguardo “non guardante” della madre, uno sguardo a momenti freddo, perso altrove, privo di amorevolezza e di capacità di “sostenere” empaticamente la personalità ancora fragile e in formazione del figlio. Anche la figura della “madre morta” può rendere bene l’idea.
L’indisponibilità di tal genere, specie se prolungata e/o associata a modi freddi e severi (caratterizzati dall’attesa di alti standard di performance), induce un senso di “infondatezza” esistenziale molto profondo e impossibile da eradicare.
L’amore non arriva da solo, perché semplicemente si è venuti al mondo. Esso va conquistato grazie all’eccellenza, ma non ci si riesce comunque mai. L’esperienza della colpa, colpa di essere nati, colpa di esistere, inquina più o meno diffusamente molta parte dell’inconscio personale.
La psicoterapia della depressione
Le terapie in questi casi (la cui gravità dipende largamente dalle risorse culturali e ambientali) vanno nella direzione di rafforzare tutto ciò che può dare un senso di fondatezza alla vita.
Spesso esistono già delle compensazioni creativamente adottate da parte di questi soggetti, magari tralasciate a causa della crisi che ha fatto precipitare il precario equilibrio su cui si regge tutta la struttura.
In cosa consiste la psicoterapia della depressione?
Fare leva sulle risorse personali in un clima particolarmente accogliente e disinteressato non può correggere ed estirpare il trauma ma può lenirne in maniera concretamente salvifica gli effetti distruttivi e catastrofici per la psiche.