Il panico e la lacerazione del legame
La psicoanalisi offre una spiegazione convincente del perché le crisi di panico emergano frequentemente proprio dopo una rottura sentimentale o la perdita di un legame significativo. Il legame, lo dice il termine stesso, offre un porto sicuro, un riparo, una direzione, un contenitore rispetto all’angoscia e al dolore di esistere.
La verità del panico
La crisi di panico rivela l’ingovernabilità del corpo, l’impossibilità di controllarlo, il sentirsi esposti a forze potenti e minacciose. La percezione è un misto di terrore, di schiacciamento soggettivo e nello stesso tempo di assoluto disorientamento. E che cosa sono queste esperienze se non rivelazioni spietate della condizione di fondo dell’essere umano, gettato nel mondo, nella solitudine, nella vulnerabilità alla malattia e alla morte?
Chi è dentro il panico non capisce cosa gli stia succedendo, teme di impazzire, è esposto ad una radicale sottrazione di riferimenti che gli fa pensare di uscire di senno, di scivolare nella follia e nella perdita della ragione. E dunque si affanna a cercare ripari, a trovare dei rimedi, a tentare di sfuggire da un ipotetico attacco futuro.
La fuga convulsa
La reazione, umanissima e comprensibilissima, non è capirne il senso, ma volersene liberare. Sfuggire all’orrore è la prima risposta al panico; solo in un secondo momento si fa strada un interrogativo rispetto alle cause, ai perché, cercati quasi sempre nella medicina. L’idea di poter essere affetti da una malattia non è così assurda, dato che molte manifestazioni di patologie gravi coincidono con uno sbalestramento della padronanza mentale sul corpo simile a quella vissuta durante una crisi. Allora visite mediche, esami, controlli su controlli si susseguono fino a che non risulta evidente che si tratta di qualcosa che ha una matrice psichica anziché organica.
Frequentemente riceviamo soggetti che hanno già completato il giro delle consultazioni specialistiche. Ancora non si chiedono che cosa voglia dire quella sensazione terrificante che intermittentemente li assale, che cosa sia successo nelle loro vite per giustificare un evento simile. Sono ancora alla ricerca di un rimedio per sbarazzarsene, fosse un farmaco, una prescrizione, qualcosa da fare. Nel frattempo la loro vita si è pesantemente limitata, sono ridotte le occasioni di uscita, è imperiosa la ricerca di un partner che faccia da accompagnatore ogniqualvolta si affronta una situazione potenzialmente stressante. Tutte le giornate cominciano a girare intorno all’esigenza di non incorrere nuovamente nell’angoscia dello spossessamento di sé.
L’arrivo dallo psicoanalista
In tali condizioni si arriva dallo psicoanalista. Il quale, se da una parte non si esime dal fornire degli appigli per fronteggiare l’emergenza, dall’altra non può far altro che introdurre la questione del senso, secondo modalità e tempistiche legate al grado di consapevolezza della persona.
Ma che senso può avere il panico se esso segnala precisamente il collasso del senso stesso? Dal momento che siamo esseri umani non possiamo esimerci dalla ricerca di un perché, tutta la nostra vita si basa sull’attribuzione di significati a ciò di cui in ultima analisi non sappiamo nulla. L’umanità stessa prevede un approccio volto alla comprensione del reale, sebbene esso ci sfugga continuamente nella sua essenza più profonda. Il fatto di essere immersi in un’esistenza che è mistero, enigma insolubile, il fatto di percepirci fragili ed esposti alle intemperie, non ci impedisce di credere nella sensatezza delle nostre vite, di cercare dei punti fissi che ci persuadano che valga la pena esserci, lottare, creare, amare, vivere.
Ecco, lo stesso discorso vale per la crisi di panico. Cosa vuol dire essere stati sopraffatti dall’ondata di non senso esistenziale? Cos’è successo da farci mettere via gli occhiali con cui filtriamo la realtà e ci muoviamo fiduciosi in essa per essere inghiottiti da una nebulosa così accecante e straziante? Che nome ha il dolore di cui stiamo soffrendo al di là del panico? Cosa c’è che non va? Quali sono gli inganni dentro cui ci siamo rifugiati?
Allora verranno fuori traumi recenti o passati, non necessariamente situazioni francamente drammatiche. Possono essere separazioni, lutti, rapporti irrisolti. Tutte condizioni che hanno a che vedere con la perdita delle radici, della fondamenta, delle basi solide su cui ritenevamo si poggiasse la nostra vita.
Potremmo scoprire che quei legami, dissoltisi, forse non erano così saldi, ma la loro apparente forza era data da un qualche eccesso. Potremmo cioè capire che c’era un troppo, un invischiamento, una mancanza di confini, una simbiosi, un’intrusività, un’idealizzazione, in ogni caso qualcosa di eccessivo rispetto ad un rapporto equilibrato, in cui i giusti confini sono rispettati. Infondo il panico rappresenta sia lo sfilacciamento del legame che il suo rovescio, ovvero la morsa che stritola, che toglie il fiato, che imprigiona e asfissia.
In quest’ottica il panico può essere trasformato in un efficace strumento conoscitivo, una sorta di spia rossa incandescente che ci indica che qualcosa non ha girato e non sta girando nel senso giusto.
Mettere così in discussione le nostre radici, i nostri dinamismi, le certezze date per acquisite non è cosa semplice ma appare come l’unica via per addentrasi in una vera trasformazione e maturazione personale. Il resto, le tecniche di respirazione, le suggestioni, i viaggi premio sono palliativi, cosmetici, modi per tirare avanti. Ma che non intaccano la struttura vera che ha costituito l’humus favorevole all’emergenza del panico.
Imparare a pensare
Purtroppo la contemporanea difficoltà di pensiero, la preferenza per l’azione e il pragmatismo portato all’estremo fanno da ostacolo ad un lavoro che porta via tempo, fatica e che si basa sul l’esercizio della parola, dell’introspezione e della messa in forma dell’affettività. Il pensiero ai nostri giorni rischia di impoverirsi, di ridursi ad un’iper concretezza senza spessore, di appiattirsi sulla dimensione specialistica e settoriale.
In questa maniera non solo si prepara il terreno al panico, allo tsunami nel bel mezzo del sereno, ma si indeboliscono anche gli strumenti per poterlo contrastare.
Nello scenario descritto la terapia costituirà una buona palestra per esercitare le facoltà mentali assopite, quelle che si prendono in carico l’osservazione e il monitoraggio della propria condizione esistenziale ed emotiva. Per rileggere una storia familiare ed affettiva e per estrarne dei significati nuovi, che sfuggivano o che non volevano essere riconosciuti a pieno. Per trovare un nuovo ancoraggio possibile, che non poggi meramente su sicurezze esterne ma che si basi su una rinnovata conoscenza di se stessi, limiti e fragilità incluse.