Superare l’angoscia
Capita frequentemente che chi soffre di ansia forte arrivi in terapia chiedendo convulsamente una soluzione per lasciarsi alle spalle la morsa dell’angoscia.
La terapia oltre l’evidenza
Già il parlare dona un certo sollievo ma ancor di più il riuscire piano piano, grazie alla guida del terapeuta, a mettere a fuoco le motivazioni profonde che si celano dietro la montata angosciosa.
A volte la persona è così convinta che la causa del malessere risieda in un fatto di evidenza immediata da rifiutare ogni indagine che vada un po’ più in là.
Incaponirsi nella ricerca della “soluzione” nel reale ad un bisogno frustrato tuttavia manda la terapia immediatamente in stallo, perché la rende ostaggio di un eccesso di realtà e permette all’angoscia e ai relativi sentimenti di impotenza di invadere pure lo spazio terapeutico.
È importante quindi che chi si rivolge ad un terapeuta capisca, presto o tardi, che nella stanza d’analisi non troverà nessuna soluzione immediata alle sue difficoltà.
La sofferenza e il disagio incontrano sicuramente comprensione e accoglienza ma, perché il lavoro terapeutico possa dare dei frutti davvero duraturi, bisogna che nasca la disponibilità ad andare oltre il problema contingente per vedere se dietro ad esso si celano dei nodi passibili di essere guardati e affrontati.
Accogliere la fallibilità
Questa disponibilità non è scontata, ed è difficile da definire perché non è dell’ordine della buona volontà. Non basta volersi impegnare, essere docili alle domande, capire le istruzioni e rispondere di conseguenza. A questo livello si tratta per lo più di un atteggiamento di fondo, di un rapporto che l’individuo intrattiene con sé stesso e che prescinde dalla terapia stessa.
Di che rapporto si tratta? In psicoanalisi parliamo di rapporto con la propria “castrazione”, che tradotto significa poter avere non una coscienza astratta ma un contatto vero con la propria fallibilità.
Fallibilità e non fragilità, esse sono due cose diverse. Sapere di avere delle debolezze infatti non predispone particolarmente ad un’analisi, perché la debolezza stessa può essere usata come un’arma, uno scudo, un alibi per non darsi da fare e non mettersi mai davvero in discussione.
Mentre essere sintonizzati con il fatto di poter compiere degli errori, accettare di non essere perfetti, di sbagliare, in ultima analisi di incontrare dei limiti e dunque di non poter “avere tutto” è la condizione necessaria per avviarsi verso una ricognizione di alcune parti di sé lasciate in ombra.
Tutti gli esseri umani sono soggetti a questa legge della “castrazione”, nessuno escluso. Ciascuno di noi può scivolare, fare figuracce, in un ambiente può essere considerato un “vincente” mentre in un altro un “perdente” assoluto. Basta cambiare i parametri di riferimento per ritrovarsi con l’immagine di sé completamente ribaltata.
“Castrazione” vuol dire anche che la nostra natura imperfetta può concretamente non permetterci tutto ciò che idealmente vorremmo.
Siamo limitati sia nella nostra mente, nelle nostre capacità, che nel corpo e nelle sue possibilità prestazionali. Possiamo essere bravissimi in un campo e limitatissimi in un altro, possiamo scoppiare di salute in un organo e ritrovarci con un difetto in un altro.
Ma anche quando siamo bravi e sani a tutto tondo, incontriamo comunque qualcuno più bravo e più prestante e quest’ultimo a sua volta vedrà in qualcun altro qualcosa che lui non ha.
Accettare quindi la propria limitatezza è la condizione necessaria perché ci siano svolte significative in un’analisi.
Si può entrare in terapia senza coltivare già preliminarmente un rapporto di accettazione profonda di sé e dunque della propria castrazione costitutiva? Certo, ci si accorgerà però che il lavoro terapeutico mirerà, attraverso la guida del terapeuta, ad avvicinarsi sempre di più al tema.
Perché solo quando si toccheranno e si lavoreranno davvero queste questioni che cominceranno ad arrivare le prime domande sbalorditive a se stessi e con esse i primi effetti terapeutici rispetto all’angoscia.
Dannarsi perché non si può avere questo o quello, o lamentarsi perché tizio e caio si comportano male non porta da nessuna parte. Se un po’ di lamentazione è inevitabile, ridurre tutto il lavoro ad uno sfogo oppure ad un’infinita attesa di una soluzione pratica fa sì che il processo terapeutico non si inneschi.
Mentre cominciare a guardarsi con la disponibilità a vedere il proprio peggio e ad assumerselo, non con la finalità di flagellarsi ma con quella di conoscersi davvero e infine di piacersi così come si è, ha un grandissimo valore ai fini di una riduzione degli eccessi sintomatici.
Accettazione della castrazione non coincide con rassegnazione, la precisazione è importante.
Una volta che siamo riusciti a riconoscere e ad avere ben chiari i nostri limiti possiamo auspicabilmente provare a forzarli.
In un’ottica però di curiosità, di desiderio, con lo sguardo rivolto all’oggetto del nostro interesse e non a noi stessi. Liberi dall’ossessione per la misurazione e la quantificazione. E soprattutto consci di ciò che si può provare a forzare un po’ e di ciò che resta comunque una colonna d’Ercole invalicabile, un limite così costituzionale da poter essere solo accettato per quello che è.
Accogliere un limite non vuol dire rinunciare a esprimersi. Si può sempre realizzare una tal tendenza o un tal desiderio in modo “diverso”, usando canali e modalità non immediati, grazie alla plasticità della nostra mente che ci permette enormi compensazioni.
Il rilancio verso nuovi orizzonti è possibile solo dopo aver integrato il nostro limite, che per ciascuno si situa in punti diversi a seconda della costituzione e storia personale. a
Allora potremo aspirare ad una vita un po’ più libera dall’angoscia e più consonante alla nostra vera natura, al di là delle attese e dei miti contemporanei di pienezza assoluta (ahimè tristemente disumanizzanti).