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La violenza sulle donne: davvero figlia del patriarcato?

Ultimamente è stato detto molto sui giornali e nei dibattiti televisivi rispetto alle motivazioni sottostanti al massacro di Giulia Cecchettin, interpretato come caso paradigmatico di violenza sulle donne

Tali spiegazioni le si vanno a ricercare in due direzioni, nel substrato culturale e nella dinamica intrapsichica dell’assassino.

Non si fa che parlare della cultura maschilista e patriarcale (di cui sarebbe ancor oggi impregnata la mente dell’uomo contemporaneo) in cui si troverebbero i germi alla base del femminicidio.

Per tale cultura infatti la donna sarebbe inferiore all’uomo, e per questa ragione verrebbe collocata sul piano di un oggetto di possesso (trascurando l’influenza che nel nostro paese ha la cultura consumista, in cui la donna-oggetto-feticcio è una figura esasperatamente in primo piano).

Nel momento in cui la donna dovesse sfuggire rivelandosi come “soggetto“ libero, nella testa del maschilista scatterebbe l’istinto omicida, manifestazione della necessità di sopprimere la vitalità “non contemplata” nell’oggetto di proprietà.

Questa spiegazione tuttavia non risulta pienamente esaustiva e soddisfacente.

I limiti della spiegazione “patriarcale”

Vedere il fenomeno dei femminicidi alla luce del patriarcato non rende conto del perché molti maschilisti convinti non uccidono affatto la donna che li lascia, ma si limitano a cercarla inopportunamente e a esibire i comportamenti classici di chi non accetta la fine di un rapporto (ricerca ossessiva di contatto, rabbia verbale ecc…).

Peraltro la libertà del partner, la sua esistenza come soggetto indipendente e libero é maltollerata tanto dall’uomo quanto dalla donna. I casi di comportamenti più o meno apertamente controllanti da parte delle donne verso gli uomini che non contraccambiano i lori sentimenti non sono rari, anche se di rado sfociano in delitti passionali.

Sia gli uomini che le donne mediamente provano gelosia o rabbia nei confronti del partner che se ne va, ma ciò non fa di loro degli assassini.

Alla base di questi casi comuni, ben lontani dalla messa in atto di un omicidio, sembra esserci un umanissimo problema di intolleranza alla frustrazione e al dolore emotivo, problema assolutamente unisex e non direttamente collegato alla dinamica omicida.

L’essere umano mediamente sano, pur intemperante o emotivamente vulnerabile, agisce la sua rabbia ed esprime la sua sofferenza senza violare il corpo dell’altro.

Con il tempo la frustrazione viene elaborata, la ferita si rimargina e l’altro viene finalmente lasciato andare.

Anche quando la perdita non può essere superata essa non si traduce automaticamente in un omicidio. Esistono persone (uomini e donne) che restano fissate ad una perdita per tutta la vita, senza tuttavia torcere un capello all’oggetto della loro fissazione ma distruggendo piuttosto se stesse con atteggiamenti depressivi.

Cosa allora porta a superare un confine che non è assolutamente sottile?

Provare rabbia e resistenza a lasciare andare via l’altro non equivale ad attenderlo sotto casa con un coltello in mano e a infierire sul suo corpo inerme non fermandosi nemmeno nel sentire le sue urla disperate.

Il maschilismo e la semplice intolleranza della perdita del legame simbiotico non sono assolutamente cause ma situazioni di contorno, che non rendono conto dell’enormità del salto dal piano dell’immaginazione a quello della pianificazione e fredda esecuzione del delitto (la concretezza del rapimento, il nastro isolante per non far urlare, la lama di coltello che ripetutamente perfora la carne della vittima che guarda con occhi terrorizzati, lo scaricare e prendere a calci il corpo agonizzante ecc…).

Inoltre la regressione psichica dell’assassino di Giulia, che lasciato dalla ragazza non può dormire senza l’orsacchiotto, non è patologica in quanto tale e non è predittiva di nulla.

La delusione d’amore infatti anche in individui senza turbe psichiche di rilievo può provocare sentimenti malinconici che spingono a rannicchiarsi nel letto, stringendo magari il cuscino o qualcosa di morbido che simula un abbraccio.

Perdere l’amore può far sentire persi tutti noi nel momento di massimo dolore, come dei bambini spaesati alla ricerca di consolazione. Ogni legame amoroso risveglia naturalmente sentimenti di dipendenza, così che la sua lacerazione li riporta temporaneamente a galla, senza per questo far scattare il clic omicida.

La regressione a seguito della frustrazione diventa spia di patologia quando essa non lascia spazio a un successivo “farsi forza” e alla fiducia che “tutto tornerà a posto”.

Essa apre piuttosto un baratro, riattiva un’antica caduta verticale del sé già sperimentata traumaticamente in tempi remoti (non si tratta qui di un banale esito depressivo).

La morte psichica, la morte del sé dell’assassino

La logica del male non c’entra nè con il patriarcato nè con la simbiosi non risolta nei rapporti con i genitori.

Come sfondo sociale dei femminicidi invece del patriarcato bisognerebbe menzionare il cinismo e la perdita di valori che assedia l’uomo moderno dal secondo dopoguerra in poi, rimasto preda della solitudine e del senso di disperazione tipico di società senza Dio, in balia di idoli mondani (gli oggetti di consumo, il danaro, il potere, il successo, il sesso ecc…). Senza parlare dell’eccesso di realtà virtuale, che nelle menti più fragili indebolisce la barriera fra immaginario e reale.

Sul piano intrapsichico più che evocare la mancata separazione dalla madre e dall’ambiente genitoriale (tema che riguarda la psicologia comune e non solo quella degli assassini) bisognerebbe ricorrere al concetto di trauma psichico.

Secondo Christopher Bollas la letteratura ci può aiutare a comprendere le basi del male: Lucifero di “Paradise lost” (Milton) spiega molto bene la dinamica psichica dell’omicida.

La figura di Satana non solo ha perso il paradiso, ha perso l’amore, ma ha vissuto anche l’annullamento catastrofico della sua identità di angelo. É questa cacciata, questa squalifica a favorire in lui l’odio invidioso per la vita, che si trasforma in identificazione con il Male, con le forze che sono contro la vita stessa.

In psicoanalisi è noto come il futuro assassino sia un soggetto gravemente traumatizzato nell’infanzia, condannato a trasferire sugli altri il suo trauma, intento a trascinare gli altri in un’analoga mortificazione.

Il trauma infantile grave, immotivato e repentino genera un collasso del sé, una morte dell’anima che finisce alla lunga per portare nei territori oscuri dell’omicidio.

L’assassino, anche quando pianifica nel dettaglio e dimostra un Io ben funzionante e ben capace di intendere e di volere, benché continui a “funzionare” è ormai un morto che cammina, un morto dentro, morto nel suo sé.

E cosa può fare uno che é morto dentro? Purtroppo può fare di tutto, perché ha definitivamente perso la sua umanità. Completamente insensibile alla sofferenza che infligge uccide freddamente, come un automa, giocando in un primo tempo il ruolo del “buono” per poi trasformarsi improvvisamente nel mostro che imprigiona, infantilizza, traumatizza e infine uccide.

Un sè ucciso uccide perché così facendo vuole stabilire una “fratellanza nella morte”. “Io sono morto” e così ora anche tu, tu che sei buono, fiducioso e amorevole farai la stessa fine.

Perversamente l’omicida tenta di sentirsi egli stesso nuovamente vivo attraverso il sacrificio di colei che rappresenta la fonte della vita.

Nel sacrificio la vittima decade da viva a morta, come é successo nell’infanzia al “sé morto” dell’assassino. Nell’atto di uccidere la donna indifesa, la donna buona e fiduciosa l’omicida tenta di “estrarne” il soffio vitale, in un doppio movimento che riattualizza il trauma e tenta di risolverlo.

Perché uccidono più gli uomini delle donne? É allora davvero il cosiddetto patriarcato a fare da sfondo a questa differenza o il fatto più radicale e iscritto nella nostra “carne” umana, per cui la donna è dispensatrice di vita mentre l’uomo si limita a riceverla?

Colei che dispensa la vita arriva più difficilmente ad annichilirla dentro di sé e dunque anche nell’altro, ma é invece esposta a subire il massimo sopruso proprio a causa del Bene che vive in lei.

La bontà della donna, il suo atteggiamento fiducioso, la sua carica erotica e la sua fragilità fisica la rendono la vittima ideale di sentimenti di invidia e di vendetta verso tutto ciò che rappresenta il Bene, l’abbondanza e la vitalità.

Bene da cui l’omicida è stato bruscamente e immotivatamente privato come da un “Paradiso perduto” in un primo momento nella sua infanzia (e nuovamente in un secondo momento proprio quando la donna lo abbandona).

Male oscuro, Violenza sulle donne