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Vita e morte secondo Jung

L’orizzonte della nostra finitezza umana, ci dice Jung a più riprese nelle sue varie opere, è ciò che dà senso alla nostra esistenza. La vita acquista valore e persino bellezza nella misura in cui è costantemente in rapporto con la morte.

Questo concetto è difficile da cogliere per noi esseri umani, sia su un piano meramente cognitivo che su uno più emotivo e profondo. Come può la morte esaltare la vita?

Equilibrio di vita e morte

Nel famoso Libro Rosso dello psicoanalista svizzero troviamo un breve passo che insiste sulla necessità di equilibrio fra vita e morte nel corso dell’esistenza.

Jung ci spiega come generalmente si tenda a ritenere giusto ciò che mantiene equilibrio e sbagliato ciò che lo turba. Egli non confuta la veridicità di tale credenza ma va oltre, rivelandoci una verità che si manifesta spontaneamente più volte nel corso della vita.

Ci dice infatti che, una volta raggiunto l’equilibrio, diventa sbagliato proprio ciò che lo mantiene e parallelamente giusto ciò che lo turba. La morte dunque, in quanto perturbatrice di un equilibrio, contribuisce al rilancio della vita stessa.

Accogliere la morte

Nel nostro modo di vivere siamo invece abituati ad opporci alla morte, intesa come il nemico numero uno della nostra volontà di potenza. Vorremmo conservare tutto così com’è, fermare il tempo, opporci ai cambiamenti e alle trasformazioni. Oppure al rovescio vorremmo vivere tutto, vedere tutti i colori possibili, assaporare tutti i sapori del mondo.

Ma così facendo impoveriamo le nostre esistenze, le inaridiamo. La morte, rifiutata, ritorna sotto forma di “morte in vita”. Ci aggrappiamo alle cose oppure moltiplichiamo all’infinito le esperienze sensibili. Oggetti, viaggi, piaceri. Fame insaziabile di vita, per Jung nociva nella misura in cui sfocia nella ripetizione seriale, nella frenetica rincorsa di sensazioni che sono state e non sono più.

Lasciare andare, dunque accogliere la morte, è invece il requisito essenziale per imparare a vivere, per rilanciare la scintilla vitale non in forma maniacale e ripetitiva ma in maniera piena ed aperta all’assoluto.

“Se accetto la morte, il mio albero rinverdisce, perché il morire esalta la vita. Contemplo perciò la morte, perchè essa mi insegna a vivere”.

Allora sarà possibile provare una gioia nuova, la gioia delle piccole cose. Contemplare la morte fa risplendere la vita, mentre andare in cerca avidamente di tutto ciò che si può ancora vivere tentando di conservare all’infinito ciò che non ci accorgiamo essere già diventato passato svela un fondo mortifero.

Da una parte nulla di ciò che si troverà sarà mai abbastanza grande per saziare la nostra fame. Dall’altra, proprio perché “tutto ciò che dura a lungo torna a eliminarsi da solo e nega il proprio significato”, lo sforzo di combattere la morte anche se dovesse riuscire lascerebbe nelle nostre mani soltanto un guscio vuoto tenuto in vita artificialmente.

Saper tramontare, farsi da parte, lasciar andare i nostri morti, non sono azioni di rinuncia ma al contrario atti frutto di saggezza e maturazione, che aprono al divenire e al mistero che ci sovrasta.

Solo vedendo a pieno la finitezza e integrandola nelle nostre esistenze possiamo accedere alla bellezza infinita che va oltre le cose umane.

Male oscuro